Il gelso di Silvia

Eccoci di nuovo ad ammirare un’opera di Silvia Molinari: questa volta un gelso (Morus alba o Morus nigra non sappiamo), non ancora in vegetazione. Infatti, è uno degli alberi più tardivi nel cacciar fuori le foglie. Però ricordatevi: le sue radici, come nelle altre piante, sono già attive da un bel po’.

Torniamo a questo meraviglioso acquarello: che grazia nel tratto, che freschezza nel verde dei giovani rami, che attenzione ai dettagli! Silvia ha ritratto una pianta che rivela, nella sua forma rigonfia e nei rami troncati le continue e drastiche potature alle quali è stata sottoposta, che ne hanno danneggiato l’armonia della forma naturale*.

E a proposito del gelso, anzi dei gelsi: sono tanto caratteristici dei nostri giardini di campagna da essere considerati “nostrani“, mentre in realtà provengono da molto lontano, anche se sulla data del loro arrivo ho trovato pareri discordanti. Il gelso bianco (Morus alba) arriva dalla Cina, dove era coltivato nell’antichità per utilizzarne le foglie come nutrimento dei bachi da seta  (bruchi della falena Bombix mori); in seguito è stato ampiamente utilizzato a questo scopo anche in Italia, specialmente in Pianura padana, in filari, ed è diventato subspontaneo sui terreni abbandonati, fino a 700 metri di altitudine, soprattutto sui suoli freschi, profondi e permeabili, non argillosi e privi di ristagni d’umidità.

Il gelso nero (Morus nigra) proviene invece da Caucaso, Armenia e Persia, si presume prima del gelso bianco, ed è stato coltivato sia come albero da frutto, soprattutto in Europa meridionale, sia, prima dell’introduzione del gelso bianco, per nutrire i bachi da seta, anche se le loro foglie sono di qualità inferiore per i bachi. Il gelso nero è citato da divesi scrittori e poeti latini, da Orazio a Plinio, ed è raffigurato nelle pitture di Pompei.

Entrambi sono alberi medio-piccoli a foglia caduca, appartenenti alla famiglia delle Moraceae, dalle radici ampie e profonde. I loro frutti (more di gelso) sono particolarI: simile a lamponi allungati, sono in realtà infruttescenze composte (sorosi), formate dall’unione di tanti frutticini veri e propri (nucole), e falsi frutti, divenuti carnosi, che costituiscono la polpa.

Morus nigra raggiunge gli 8 ma anche i 10-15 metri di altezza, con rami grossi e robusti e foglie piuttosto grandi, alterne, ovali, con la base cuoriforme (cordata), margine irregolarmente dentellato e a volte lobato, piccolo corto; il colore è verde scuro nella pagina superiore, più chiaro in quella inferiore; è ruvida sulla pagine superiore, pubescenti su quella inferiore. Le more sono viola-nerastre, lucide, succose e dal sapore dolce acidulo.

Morus alba cresce velocemente fino a 15-20 metri di altezza, con chioma fitta e ampia; ha foglie molto simili a quelle del gelso nero, ma un po’ più piccole, meno cordate alla base, e di color verde chiaro. Le more sono bianco-verdognole o rossastre, più piccole e dal sapore più dolce.

 

I gelsi in giardino. I gelsi sono alberi stupendi, perfetti per i giardini di campagna, nelle zone collinari e di pianura. I gelsi amano i terreni profondi e freschi, ma li sopporta anche poveri e moderatamente siccitosi, grazie alle radici dal fitto capillizio. Temono i venti troppi forti, amano in luoghi soleggiati o in mezz’ombra, e richiedono ampi spazi. Evitateli però nei punti riservati al pranzo, al parcheggio delle auto e dove intendete disporre una pavimentazione, perché i frutti, cadendo, sporcherebbero. E a proposito delle more del gelso: sono squisite al naturale, con un po’ di zucchero e limone spremuto, ma altrettanto è buono il succo, soprattutto se spremuto con la centrifuga: lo si può bere così o diluito con un po’ d’acqua, o trasformare in sciroppo, gelatina o liquore. In Sicilia le more del gelso nero sono ancora utilizzate sia come frutto da tavola sia per dolci, guarnizioni e per la famosa granita di gelsi.

A proposito di cattive potature. Ai gelsi per la bachicoltura, così come ai salici da vimine, viene praticata ogni anno, fin da giovani, una drastica potatura, per stimolare la produzione di nuovi getti, più fogliosi e facili da utilizzare per nutrire i bruchi nel caso dei gelsi, più flessibili e facili da lavorare in quello dei salici. Una potatura simile viene ancora eseguita su alcuni alberi (aceri, platani, tigli e ippocastani) allevati a candelabro, ovvero con una chioma arrotondata e le branche principali simili a grosse nocche. Questa forma di allevamento, oltre a essere molto decorativa, consente di tenere ridotta la chioma di alberi che altrimenti raggiungerebbero grandi dimensioni, ottenendo comunque una buona ombra. Può però essere praticata solo a partire da piante giovani, facilmente plasmabili e capaci di isolare i tagli rapidamente. La potatura deve essere eseguita ogni uno-due anni, affinché le superifici di taglio siano piccole.

Le due forme di allevamento non vanno però confuse con la potatura a capitozzo o capitozzatura,  da condannare, anche se purtroppo ancora ampiamente praticata: consiste infatti nel ridurre drasticamente la chioma di alberi adulti, tagliando rami di grandi dimensioni. Oltre a distruggere il portamento naturale della pianta, la debilita per lo sforzo di isolare grosse ferite, facilita la penetrazione di parassiti e altera per sempre la fisiologia interna, con conseguneze sulla stabilità dei rami.

La bachi-gelsicoltura per la produzione della seta inizia in Cina, probabilmente già nel VII millennio a.C., secondo la leggenda grazie all’imperatrice Xi Ling Shi, moglie dell’imperatore Huang Di: sarebbe stata lei ad accorgersi, dopo che un bozzolo era caduto per caso in una tazza di tè bollente, che del filo sericeo in che lo formava. Per millenni il procedimento per ottenere la seta venne tenuto segreto, ma in seguito si verificarono fughe di notizie verso il Giappone, la Corea e l’India. Secondo un’altra leggenda, a svelarne il segreto fu una principessa, che, andata in sposa a un re del Tibet, nascose fra i capelli le uova del baco da seta. L’Impero romano conosceva e apprezzava la seta, ma la tecnica per produrla arrivò in Europa solo dopo il 550 d.C., attraverso l’Impero bizantino: secondo la leggenda, due monaci missionari agli ordini dell’imperatore Giustiniano portarono a Costantinopoli alcune uova di baco da seta nascoste nei loro bastoni di bambù, raccontando come allevarli; le uova furono messe al caldo nel letame, in primavera si schiusero e i piccoli bachi furono nutriti con foglie di gelso (probabilmente gelso nero). Da Costantinopoli la bachicoltura si diffuse in Grecia e da qui (pare nel XII secolo) in Italia, sempre utilizzando foglie di gelso nero, poiché secondo alcune fonti il gelso bianco, dalle foglie più prelibate, sarebbe stato introdotto soltanto nel 1400. In seguito, comunque, in Italia vennero selezionate  varietà di gelso bianco più ricche di foglie e più adatte all’alimentazione del baco.

Fin dal 1100 l’Italia è stata la maggior produttrice europea di seta, oltre che di lana. L’allevamento del baco da seta ha rappresentato a lungo la prima fonte di reddito dell’annata agraria, dopo l’inverno. Con la rivoluzione industriale ebbe un ulteriore sviluppo, soprattutto nel nord Italia, dove nacquero le filande industriali (nelle quali le condizioni di lavoro erano terribili). La gelsi-bachicoltura nel nostro Paese ha prosperato fino circa 50 anni fa, in particolare in Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Triveneto: negli anni ‘50, soltanto in Veneto c’erano 40.000 aziende agricole che allevavano bachi da seta. L’attività cominciò a declinare con le due guerre mondiali, fino a scomparire dopo l’ultima, a causa di diversi fattori: l’invenzione delle fibre sintetiche, il cambiamento dell’organizzazione agricola – l’allevamento dei bachi era affidato ai mezzadri -, l’inurbamento e la concorrenza cinese, con i suoi prezzi competitivi; inoltre i gelsi si sono quasi estinti a causa di un insetticida, il fenoxicarb, utilizzato nei frutteti di mele, pere e pesche.

Ma oggi anche in Cina, a causa del forte inquinamento, i gelsi stanno scomparendo: e mentre i cinesi stanno comprando terreni in Africa, per spostarvi la coltivazione, in Italia si sta verifciando un rilancio della bachicoltura: per lo meno in Veneto, dove da alcuni anni venticinque allevatori stanno piantando i primi gelsi. I piccoli bachi vengono forniti da Cra di Padova, dove sono conservate 193 razze in purezza.

A proposito di bachi…La vita dei bachi da seta passa attraverso 5 fasi larvali, per un totale di 27-28 giorni, fino a diventare lunghi 7-8 centimetri, quando si incrisalidano. Il loro allevamento viene effettuato in stanze apposite, dotate di finestre e aperture supplementari sopra le porte o sotto le finestre per garantire l’aerazione. I bachi venivano distribuiti, assieme alle foglie fresche, su graticci o intelaiature in legno, con fondo in cannicciato o tela, sovrapponibili per guadagnare spazio. All’inizio le foglie fresche sono finemente trinciate, in seguito somministrate intere e poi con tutto il ramo. Alla fine della vita larvale, i bachi “salgono al bosco”, cioè si arrampicano sui rami ormai secchi e in 3-4 giorni si costruiscono intorno il bozzolo, all’interno del quale si trasformano in crisalidi. Ma prima che le crisalidi si aprano e gli adulti sfarflallino, i bozzoli vengono gettati in acqua bollente e delicatamenente rimestati per individuare il capo del filo di seta, dipanarlo e avvolgerlo.  Poveri bachi! Anni fa mi capitò di visitarne un piccolo allevamento dimostrativo presso la Scuola Agraria del Parco di Monza: non avete idea di rumore producevano le minuscole mandibole! Si sentiva proprio fare CIOMP CIOMP, GNAM GNAM…

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