Maredolce, la Conca d’Oro e il mandarineto superstite

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Il Castello di Maredolce o Palazzo della Favara è un edificio palermitano in stile islamico che si trova alle pendici del Monte Grifone, nel quartiere Brancaccio, periferia sud di Palermo, oggi quasi nascosto alla vista dalle costruzioni che lo circondano, e aperto alle visite dopo decenni di abbandono. Ho avuto la fortuna di visitarlo, assieme a Giuseppe Barbera, professore  di Colture Arboree all’Università di Palermo, esperto di paesaggi agricoli della tradizione mediterranee e autore di molti libri  interessanti, oltre che meraviglioso narratore, dalla parola colta e leggera assieme. Con lui, i cari amici Filippo Pizzoni, archittetto paesaggista e storico del giardino, e Gigio Cristiano, attento giardiniere, e altri soci di Orticola di Lombardia.

Dunque, il castello di Maredolce risale probabilmente al periodo arabo tra il 998 ed il 1019, durante il governo dell’emiro Kalbita “ Ja’Far II”; conosciuto ai tempi come Palazzo della Fawwarah, dal nome attribuito alla sorgente che sgorgava dal Monte Grifone, nel 1071 venne conquistato assieme all’intera Sicilia dal normanno Ruggero I. In seguito,, Ruggero II d’Altavilla trasformò e ampliò il palazzo e il giardino che lo circondava, realizzandovi una grande peschiera, alimentata dalla fonte ai piedi del monte. L’edificio si venne quindi a trovare circondato per tre lati dall’acqua di questo lago artificiale, detto appunto “maredolce” per le grande dimensioni, nel quale furono introdotti pesci di varie specie. Al centro dello specchio d’acqua Ruggero, che nel castello di Maredolce soggiornava soprattutto in inverno, fece costruire un isolotto a forma di Sicilia rovesciata, sulla quale piantò palme e agrumi e inserì diversi uccelli esotici. Il re si divertiva a navigare sul lago con la sua corte, ma lo utilizzava anche come riserva di pesca. 

Il palazzo, di forma rettangolare con una rientranza nell’angolo est, era dotato, come si usava in epoca normanna, di una cappella privata dedicata ai Santi Filippo e Giacomo: la Cappella della Favara, costruita con molta probabilità sullo stesso luogo della originaria moschea privata dell’emiro. Tutto intorno si sviluppava un grande  giardino ricco di alberi, agrumi ed altri alberi da frutto, corsi d’acqua e animali esotici, su ispirazione dei giardini islamici africani e spagnoli dell’epoca.

Particolarmente amato da Costanza d’Altavilla (1154–1198), che vi trascorreva l’estate con il piccolo figlio Federico, futuro imperatore illuminato con il nome di Federico II di Svevia (1194-1250), il castello della Favara nel 1328 venne ceduto da Federico d’Aragona, noto anche come Federico III di Sicilia (1273 o 1274–1337) ai Cavalieri Teutonici che lo trasformarono in ospedale. Nel 1460 venne poi concesso in enfiteusi alla famiglia siciliana dei Beccadelli dei Bologna, che iniziarono a trasformare la proprietà in azienda agricola, opera completata con il passaggio a un nuovo proprietario, nel 1600, Francesco Agraz, duca di Castelluccio. Con gli inizi dell’Ottocento inizia purtroppo il declino e l’abbandono di Maredolce, detto “castellaccio” dagli abitanti più povero del quartiere, che lo usavano abusivamente per ricoverare le bestie, ma anche per viverci.

Acquisito per esproprio dalla Regione Sicilia nel 1992, nel 2007 è stato avviato, a cura della Soprintendenza ai BB.CC. e AA. di Palermo ha condotto un lento e impegnativo restauro del castello, che ha portato al recupero del grande cortile centrale e delle stanze rimaste, nonché avviato un programma di recupero dell’intera area, per restituirla interamente alla pubblica fruizione.  Passeggiarvi, ascoltando i racconti del professor Barbera che portavano a immaginare la vita dei re e delle regine normanne, è stato davvero emozionante.
Poco o quasi nulla rimane però del grande lago, prosciugato da tempo, divenuto fin dal 1600 un aquitrinio, e infine terreno asciutto. In compenso, rimane qualcosa dell’antico mandarineto, che mi è apparso come un mare verde brillante sotto il sole siciliano, così luminoso anche se eravamo in ottobre.

Il mandarineto. Oggi l’agrumeto di Maredolce è quanto rimane della famosa Conca d’Oro, la pianura sulla quale si trova Palermo, compresa fra i Monti di Palermo e il Mar Tirreno e attraversata dal  fiume Oreto. L’area, che si estende per circa cento chilometri quadrati, è oggi prevalentemente edificata, ancor più dopo l’intensa speculazione edilizia che si è verificata negli anni Cinquanta-Sessanta, nota come il Sacco di Palermo, alterano l’aspetto dell’intera zona e della città.

La storia della La Conca d’Oro è bellissima e racconta di una Sicilia antica ricca di idee e iniziative: la grande pianura, grazie al terreno fertile, all’abbondanza di acqua sorgiva e all’esposizione protetta e soleggiata, è da sempre stata occupata da coltivazioni agricole, un tempo miste e frammentarie. Poi, fra il 1400-1500 si sviluppò su ampia scala la coltivazione della canna di zucchero, grazie alla quale la città si arricchì molto. Nel 1500-1600 fu la volta dello sviluppo degli orti, dei vigneti e degli uliveti. Ai primi del 1800 inizia il “secolo degli agrumi”: la Conca d’Oro diventa un unico grande agrumeto, tanto che lo scrittore Guy del Maupassant la definì la “foresta profumata”; finalmente gli agrumi potevano arrivare freschi a Londra e Parigi, e, dai primi del ‘900 anche in America; lo stesso accadde, nello medesimo periodo, anche in Liguria, dove viti e ulivi a vennero sostituiti dagli agrumi. All’inizio del secolo, si diffuse la monocoltura dell’arancio (Citrus sinensis), fino a che, nel 1850 lo scoppio una grave epidemia di fitoftora, provocò la morte delle piante. Subentra allora il limone (Citrus x limon), che a sua volta ebbe un grande successo per altri 50 anni e in particolare dopo che, nel 1875, venne scoperto come forzare le piante (assentandole per poi bagnarle in abbondanza), spingendole a produrre frutti anche in estate, i cosiddetti “verdelli”. Ai primi del Novecento un’epidemia di mal secco distrusse i limoneti, che vennero sostituiti dall’ultimo agrume importante arrivato in Europa dalla Cina: il mandarino (Citrus reticulata). Arrivato all’inizio dell’Ottocento nei Kew Garden di Londra, è stato a lungo coltivato come pianta ornamentale da serra, finché venne da qui inviato a Malta per la produzione dei frutti e da Malta arrivò poi Palermo.

Inizialmente nella Conca d’Ora si coltiva mandarino ‘Avana’, così chiamato per colore della buccia matura, simile a quello dei sigari cubani, i cui frutti maturano in dicembre. Poi, negli anni Cinquanta dello scorso secolo venne individuata nella zona di Ciaculli una mutazione naturale che matura a febbraio, poiché utilizza il freddo per avere un contenuto di zuccheri maggiore e inoltre contiene meno semi: battezzata mandarino ‘Tardivo di Ciaculli’ è ancora il protagonista del mandarineto di Mardedolce. Oggi ne rimangono  7 ettari, di cui 5 situati sull’isola al centro del lago prosciugato, e 2 tutto intorno. Una parte del mandarineto è in completo abbandono, ma in attesa di restauro.

Le piante, coltivate in biologico, presentano un sesto di impianto piuttosto fitto affinché si facciano un po’ ombra una con l’altra. Sono ancora irrigate con l’antico sistema di irrigazione, formato da canalizzazioni e pozzetti in pietra e mattoni.

Una cooperativa sociale si è aggiudicata il bando per il recupero del mandarineto, ricevendo in concessione per sei anni i sette ettari di terreno che lo compongono, sulla base di un programma di coltivazione e  utilizzazione condivisa con la Soprintendenza. L’obbiettivo è riportare in vita tutto il mandarineto storico, riaprire i sentieri e far quindi rinascere Maredolce, coinvolgendo giovani portatori di handicap e detenuti. Vi assicuro che nel frattempo vale davvero la pena visitare quanto è già stato restaurato.

Curiosità: da dove viene la parola “mandarino” per indicare i frutti di Citrus reticulata? Dal colore delle tuniche dei dignitari cinesi, o mandarini.

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