Cone quelle corolle arricciate e panciute come elaborate cuffiette o gonnelline, cucite dalle fate per andare a spasso in primavera, le aquilegie piacciono da matti. E poi, quelle foglie aggraziate e leggere, simili alle fronde del capelvenere. Appartenenti alla famiglia delle Ranucolaceae, le aquilegie sono erbacee perenni a vita breve, sempreverdi, comunemente chiamate “colombine” e “ballerina”, proprio per l’aspetto dei loro fiori complessi, penduli o più o meno rivolti verso l’alto, formati da un calice a cinque sepali e una corolla a cinque petali, ciascuno dei quali sviluppa alla base un’appendite detta sperone, più o meno lungo, dritto e ricurvo. Originarie delle zone temperate di Europa, Asia e Nordamerica, sono molto rustiche. I loro steli fiorali, eretti e ramificati, possono essere da 10 a 100 centimetri e oltre, in cespi larghi 30-50 centimetri. Fioriscono in grappoli in primavera-inizio estate o estate, in base alle specie di orgine e in parte a dove le si coltiva. Sono seguite da capsule che a maturità si aprono, spargendo in giro molti semi nero-verdastri. Le foglie, a tre lobi più o meno incisi, con le foglioline a forma di piccolo ventaglio, sono basali e caulinari, ma queste ultime sono più piccole, di colore verde chiaro, verde scuro o verde-azzurro, e in alcune assumono sfumature porpora in autunno. Ho letto, pensate, che possono essere utilizzate per lucidare il rame e togliere le macchie di inchiostro o di ruggine dai vestitizzate per lucidare il rame e togliere le macchie di inchiostro o di ruggine dai vestiti. Ma attenzione: sono velenose, perché contengono diverse sostanze tossiche, come il resto della pianta.
Curiosità: le origini del nome attribuito al genere, Aquilegia, sono molto incerte. Dovrebbe derivare da “aquilina”, che a sua volta viene da “aquila”, in virtù dell’habitat montano di origine che caratterizza la maggior parte di loro, oppure degli speroni florali, simili a un becco d’aquila, o ancora della forma dei nettari (le ghiandole produttrici di nettare), uncinati come gli artigli di quest’ultima. O infine, dall’aggettivo latino aquilegus (a sua volta da aquam lego, raccolgo acqua), per la forma a imbuto delle corolle. Il termine “aquilina” è stato utilizzato, nei suoi testi, ancora nel 1200, da Alberto Magno, vescovo domenicano appassionato botanico; il nome viene poi trasformato in “aquilegia” da Carolus Clusius nel 1500 e poi reso ufficiale da Linneo a metà del 1700.
Da selezioni e incroci di e fra specie europee, americane e asiatiche sono stati ottenuti, fin dall’Ottocento, innumerevoli ibridi e cultivar, di ogni colore, foggia e dimensioni di pianta e fiori. Le aquilegie infatti, proprio come gli ellebori, si incrociano con estrema facilità, caratteristica molto gradita agli ibridatori e che in un giardino regala continue felici sorprese. Fondamentalemente, si dividono in due gruppi: le “aquilegie dei boschi”, alte da 40 centimetri in su, come A. vulgaris, adatte a formare macchie e bordure; e le “aquilegie alpine“, più piccole, indicate per i giardini rocciosi e di montagna..
Guardate intanto alcune delle tante cultivar della collezione di Lidia e Mauro Zanelli, di Floricoltura Zanelli, di Montechiari (BS): non sono bellissime, con le corolle così rigonfie di petali?
Da coltivare le aquilegie sono facili e anche se a vita breve (4-5 anni), si riproducono e disseminano da sole che è un piacere. Richiedono un terreno fertile, sabbioso o comunque leggero (specie le alpine), fresco, preferibilmente in mezz’ombra, ovvero dove ricevano sole nelle ore più fresche della giornata, oppure ai piedi di alberi e arbusti. Caldo, aridità ma anche i ristagni idrici sono loro nemici.
Aquilegie italiane. In Italia ne crescono diverse specie, diffuse nei boschi, nei pascoli, sulle rupi, ma sempre a una certa altitidine o comunque in posizione fresche, anche al Sud, cosa che non mi aspettavo, ma sempre in quota. Fra queste, Aquilegia vulgaris, amante dei luoghi boschi, alta 80 centimetri, con i fiori penduli blu-violetto e lunghi speroni ricurvi; A. alpina, diffusa fra le rupi e i pascoli delle Alpi, a 1500-2600 metri di quota, con fusti alti 20-30 centimetri, robusti e poco ramificati, fiori penduli blu intenso, con speroni diritti e poco pronunciati. A. einseleana, presente in Lombardia, Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, a 800-2000 metri di quota, con grandi fiori blu violetti, su steli sottili. A. atrata, diffusa in Italia settentrionale, Emilia Romagna e Toscana, fra i 600 e i 2400 metri di quota, dai fiori rosso porpora scuro. A. confusa, endemica della Prealpi centrali e orientali, fiori alti, piccoli, viola scuro. A. bertolonii endemica delle Apuane, fra gli 800 e 1800 metri di quota, fiori viola primaverili-estivi. A. dumeticola, diffusa nei cespuglieti dell’Italia meridionale e centrale fino a Toscana, Emilia Romagna e Liguria, fra i 5-600 e i 1400 metri di quota, dai fiori viola-azzurro brillante. A. apuana, presente in Toscana sulle Apuane, in Lazio, Abruzzo e Basilcata, fra i 200 e i 100 metri di quota, dai fiori snelli, alti, viola brillante, in primavera. A magellanensis, che invece è endemica del Massiccio della Majella, sull’Appennino abruzzese e presente solo qui, a 1000-1400 metri di quota, con fiori snelli azzurri. A nuragica, endemica della Sardegna o sardo-corsa, azzurrina. Aquilegia lucensis, presente solo nell’Appennino tosco-emiliano fino alla Liguria, dai fiori blu zaffiro. A. champagnatii, presente solo in Italia, in Campania, dalle corolle viola azzurro pallido.
Rispondi